Titolo: “Future Past”
Anno: 2021

Premessa
01) Invisible
02) All of You
03) Give It All Up (feat Tove Lo)
04) Anniversary
05) Future Past
06) Velvet Newton
07) Beautiful Lies
08) Tonight United
09) Wing
10) Nothing Less
11) Laughing Boy
12) Hammerhead (feat Ivorian Doll)
13) Invocation
14) More Joy! (feat CHAI)
15) Falling (feat Mike Garson)
Osservazioni
Conclusioni

Premessa

La recensione che segue non pretende assolutamente di esaminare i brani dall’inizio alla fine, in ogni loro strato o più fine dettaglio, ma solo di descriverne la mia personale scoperta e di evidenziare elementi che, ai primi ascolti, mi paiano degni di nota, per un motivo o per l’altro.

Faccio riferimento alla versione deluxe dell’album, che include tre brani aggiuntivi rispetto all’edizione regolare: come avveniva in “All You Need Is Now”, e diversamente da “Paper Gods”, le tracce aggiuntive non sono semplicemente messe in coda alle altre, bensì inserite nel flusso complessivo dell’esperienza di fruizione, secondo un preciso intento comunicativo.

Il titolo dell’album, “Future Past”, costituisce e fornisce, in se stesso, una guida all’ascolto: da un lato siamo avvertiti che ciò che ora ascoltiamo, una produzione fresca, nuova e scintillante, nel futuro sarà considerata, da loro stessi, già passata, da consegnare alla storia per guardare avanti a qualcosa di ancora differente; dall’altro, si può facilmente riscontrare come storia ed attualità (in senso musicale) dei DD convivano in quest’opera.

Chi conosce in profondità la storia e le ramificazioni di pop e new wave saprà certamente individuare, in questo o in quel suono, in questo o quell’arrangiamento, riferimenti precisi: pur se le mie lacune musicologiche non mi permettono di far ciò con precisione (ahimè), occasionalmente esaminerò anche la resa emozionale e suggestiva dei brani, cercando di decifrarne le intenzioni creative e comunicative sottostanti.

Per inciso, mi si potrebbe rispondere che avrei potuto indagare da tempo per scoprire quei riferimenti, ed è certamente così, ma mi piace, comunque, l’idea che questa recensione mi veda reagire partendo da ciò che, allo stato attuale, conosco.

E, d’altra parte, ogni fruitore di musica segue un suo personalissimo percorso, di volta in volta influenzato da suggestioni e magnetizzazioni più o meno estemporaneo: nel mio caso, per esempio, si tratta di un cammino, ormai pluri-decennale, più orientato al jazz, al prog, al metal e alla classica.

Ad ogni modo, c’è sempre tempo per approfondire, imparare ed arricchire il proprio bagaglio musicale.

01) Invisible

1.1 Musica

L’album si apre con una chitarra distorta, grintosa.
I synth che si sussegono e sovrappongono, anticipando la stratificazione di suoni che caratterizzerà tutto l’album, fanno immediatamente pensare al passato della band, specialmente al primo album, con quel loro sapore deliziosamente, suggestivamente vintage.
Una voce femminile sussurrata è un’altra di quelle caratteristiche che reincontreremo altre volte in questo viaggio: un omaggio o riferimento al fenomeno ASMR che, un sussurro dopo l’altro, vuole accedere, immergendosi al di sotto del frastuono del mondo che ci stordisce i sensi, al nucleo dell’Anima?
Ma ecco, la batteria (triggerata, credo, ossia riprodotta con suoni sintetici) ci ricorda che non di solo passato vivono i Duranduran (mi piace scriverlo così, come ai tempi di Big Thing), ed ecco che inevitabilmente, giustamente, anche i suoni più artefatti di Paper Gods trovano un loro posto in questo nuovo (capo)lavoro dei nostri.
Comincia il verse (la strofa).
Un altro elemento fondamentale del sound dei DD si affaccia ad accompagnarci: è il basso di John Taylor, secco, percussivo, presto slappato, tanto rotondo quanto incisivo.
Ed infine, la voce di Simon John Charles Le Bon, che caratterizza il sound della band con non minor peso.
E servono certamente, questi due elementi, perché sulla prima iterazione della strofa i synth lanciano misuratissime sferzate di colore sonoro, laddove, altrimenti, tra le note sincopate di batteria e basso, tra una parola e l’altra, vi sarebbe il silenzio più straordinario e spaventoso… come se la musica costruisse, ogni nota come un asse di legno o una fune, un ardito, maestoso, delicatissimo ponte sospeso sulle profondità abissali dell’universo…
Il ritornello, come spessissimo avviene con loro, è evocativo, in continua ascesa (nell’afflato, nonostante la progressione armonica sia piuttosto discendente) alla ricerca di una risoluzione armonica che, giustamente, non deve arrivare a destinazione, ma deve piuttosto per seminarci nel cuore quel pathos, quel desiderio di guardare più in là.
Le parole sono intervallate da un synth che imita, in qualche modo, i richiami di una sirena, forse proveniente da un faro, dispersa nella nebbia più fitta: non per niente il testo restituisce il punto di vista di una persona che teme di esser divenuta invisibile… ed ecco, il suo canto è una richiesta disperata di esser percepita.

Già in AYNIN il primo brano, in quanto singolo a presentare l’album, è un pezzo intenso, forte, con sonorità più tendenti al moderno, non necessariamente in linea con quanto avviene nel resto dell’album: ma già almeno da Red Carpet Massacre il primo brano è anche quello nel quale ci viene dato un assaggio dello slap di basso per cui John Taylor ha fatto (e continuato a portarla avanti) scuola.

Mi piace anticipare come tutto l’album sia pervaso da linee di basso assai gustose, per nulla ridotte ai minimi termini.
L’ultima parola, “invisible”, cantata quando la musica ha già lasciato il posto al silenzio, riesce perfettamente a trasmetterci l’idea di una terribile solitudine alla quale nessuno sfugge (“‘coz we all become invisible”).

1.2 Testo

Simon Le Bon è non solo pregiato cantante (in questo album la sua voce è meravigliosamente potente) ma anche sopraffino liricista.

Dunque la Parola ricopre un ruolo particolarmente importante, dal suo punto di vista… e non solo dal suo, naturalmente.

“La Parola è potente”, dice Joshua, protagonista di “World enough, and time” di James Khan: adepto della religione degli scribi, in un tempo post-apocalittico, popolato do incubi, al quale si è arrivati scrivendo in profondità, scientificamente, laddove non si sarebbe dovuto, e nel quale la parola viene creduta, per conseguenza, magica.

Nella Genesi leggiamo come Dio inviti Adamo ad attribuire un nome ad ogni altra creatura vivente.

E, d’altra parte, non è il nostro nome che ci identifica?

Dunque, in Invisible, il primo ritornello traccia un parallelo tra la visibilità di ciascuno e la capacità… o meglio, la volontà, altrui, di pronunciare il nostro nome.

È questo, prima di ogni altra cosa, che ci fa sentire visti, riconosciuti nella nostra dignità.

Torna in mente “Say the word”, una canzone degli Arcadia. E, ahinoi!, la folle malvagità nazista non si rifiutava forse di riconoscere l’umanità delle vittime del genocidio proprio sostituendo a nome e cognome un numero, come si identifica una cosa in un magazzino con un codice articolo?

Il secondo ritornello, logicamente, scambia oratore è uditore: si pronuncia il proprio nome, si afferma la propria esistenza, ma è, l’altro, disposto ad ascoltarlo e riconoscerlo?

Si infonde la propria essenza nelle proprie parole, ma sono ascoltate?

Il terzo ritornello, come già detto, ci espone l’immagine di una solitudine, di un’invisibilità collettiva che nasce dalla mancanza di comunicazione.

02) All of You

2.1 Musica

Il riff di basso in apertura, suonato in solitaria, è una piccola, grande meraviglia, efficace com’è nel permetterci di ascoltare, in tutta la sua chiarezza, lo stile bassistico di JT che ha generosamente attinto al funky e alla disco degli anni ’70: ecco allora che non troviamo solo note intelleggibili, ma anche numerose, intelligenti e più che opportune “ghost notes” (cioè, “note fantasma”), suoni percussivi ottenuti sul basso stoppando le corde con la mano sinistra mentre la destra le percuote, che contribuiscono a rendere la parte di basso ancor più ritmica ed integrata a ciò che la batteria farà.
Il synth portante della strofa che segue, freddo, asciutto, ci riporta agli anni ’80, mentre la chitarra si concede poche entrate repentine e sferzanti: una presenza discreta, quella della chitarra, che aggiunge senza invadere troppo un territorio sonoro che, a parte nell’era Cuccurullo, non è mai stata dominato da questo strumento.
Dei tom tonanti ci introducono ad ogni nuova sezione: fanno lo stesso prima del ritornello, che pur struggente, finisce con l’appoggiarsi allo stesso accordo della strofa, ma con modo minore.
Un ritornello che suona assolutamente, mangnificamente duraniano, ed addirittura si conclude con un breve assolo di chitarra piuttosto effettata, in un modo che rimanda un po’ allo stile tayloriano, un po’ a quello cuccurulliano, e, al tempo stesso, a nessuno dei due, dato che non cerca lo scatto o il virtuosismo.
Ma un altro elemento importante del ritornello è dato dal pianoforte, che sottolinea i cambi di tonalità con accordi pieni e corposi… solenni!
Nel secondo ritornello si aggiungono dei cori, su una sezione ritmica avvincente, da disco.
E dopo una sezione strumentale che, doverosamente, ci permette di godere dell’afflato tra gli strumenti (un fraseggio di chitarra funky molto effettata ricorda cose dei Daft Punk), una porzione quasi sospesa nel tempo si avvale di voci femminili, parlanti e vocalizzanti, e di un synth etereo, quasi ectoplasmico, che aleggia tra un orecchio e l’altro…
Un’ulteriore voce femminile (la cantante Barli) si scatena nel controcanto sul ritornello finale, con notevolissimo gusto!

2.2 Testo

Parrebbe, dalle liriche delle prime due iterazioni di strofa e ritornello, una canzone dal punto di vista di qualcuno che si lasci dominare dalle proprie incertezze circa l’amore che sta vivendo, incertezze a sua volta trasmesse dell’amante, che si riflettono in un bisogno di commistione totale, di perdita di ogni confine e separazione.

Ma nella seconda strofa due versi consecutivi balzano all’occhio: “So much more to this song’s meaning I don’t have time to say / Hit the high note of my feeling, can’t let this fade away”.

Dunque c’è almeno un secondo piano di lettura: e si usa un’espressione gergale che è riferita al canto, “prendi la nota alta”.

Più avanti, dopo l’intermezzo parlato, leggiamo anche “in that we are music lovers”.

L’amante misterioso che inizia la catena dei dubbi potrebbe essere l’artista, che domanda ad ogni fan se resterà, se continuerà a seguirlo… o almeno questo è ciò che il fan più sfegatato ama pensare: che l’artista gli chieda, quasi personalmente, di non abbandonarlo.

Ecco allora quella che pare un’ossessione totale, volere conoscere e possedere tutto dell’artista, ed ancora immaginare un’affinità, un’esclusività di quel rapporto che escluda gli altri fan e renda l’artista una proprietà tutta per sé.

03) Give It All Up (feat Tove Lo)

3.1 Musica

3… 2… 1… 0… ignition!
Un rumore in stereo, larghissimo, molto probabilmente ottenuto con un sintetizzatore lo-fi vintage, che fa da tappeto, presto estinto, ad un’altra scia di rumore bianco trasfigurata dal flanger, come a suggerire il lancio di un razzo, o di un’astronave (o forse solo di un’aereo, magari supersonico?), verso luoghi lontani e meravigliosi, è una firma inconfondibile: di carezzare le nostre orecchie si occuperà il maestro Nick Rhodes, ora anche comandante di missione (o di volo).

E’ di nuovo un salto nel presente (nel futuro?), questo magnifico brano.
Perché sì, la cassa e poi il rullante sono smaccatamente discotecari (post 2000), con quel “unz unz unz”… ma l’hi-hat suonato a terzine, aperto solo su due consecutive su quattro, è così splendidamente “rogertayloriano”, ma anche rhodesiano, per come è effettato dal flanger, che questa “piccola”, significativa finezza riscatta la resa della parte strettamente ritmica.
Delle ulteriori percussioni sintetiche eseguono un ritmo quasi tribale, a suggerire un’intenzione esotica che è confermata da un arpeggio languido, a quartine e terzine minori, alterate ed arricchite in maniera struggente, che, ancora, sarà portante nei ritornelli a venire.

La melodiosa voce di Tove Lo, sommessa e sensuale, ci introduce ad un elemento, un vocalizzo melodico (“Yeah, I give it all up… for you”), che ritroveremo, anche solo nella melodia, nell’arco del brano.

Subentra, poi, un tappeto di suoni più corposi, che accompagna Simon, la cui voce suona così espressiva, in una meravigliosa linea vocale, prima che si scateni nel ritornello ruggito a pieni polmoni.

Fa un certo effetto, ascoltare il basso eseguire, con un ritmo che ben si abbina alle percussioni “esoticizzanti”, quasi nulla più della fondamentale di ogni accordo… nel senso del brano, “I give it all up” (“ho lasciato perdere tutto”), sembra una scelta tematicamente coerente.

La seconda strofa vede Tove Lo diventare la voce principale (cosa che merita pienamente), mentre Simon torna ad unirsi a lei per il secondo ritornello.

Come non elogiare anche dei versi scivolati e screziati della chitarra distorta: amare risate di gabbiani, è la mia impressione.

Durante il nuovo ritornello nuovi arpeggi ascendenti di archi fanno capolino per la prima volta… torneranno, ben più presenti.

Una sezione sospesa, evidentemente pensata per far scatenare sulla pista da ballo (e, forse, anche per concedere un’ulteriore pausa a Simon nei concerti), vede nuovamente l’ospite “solistare” con energia:: a questo punto è doveroso citare anche l’aggiunta di un’intricata tessitura di arpeggiatore, scintillante come pagliuzze di sole che danzano sulle onde del mare, che nella struttura e nelle intenzioni ricorda quella analoga, celeberrima, di Rio.

La coda, quando i “tamburi” tacciono, è una sorta di… diapositiva in movimento, estemporanea, impressionista (stile nel quale Nick Rhodes è maestro), data dal sovrapporsi e susseguirsi di synth a metà tra il melodico e il rumoristico che suggeriscono l’immagine del razzo che porta lontano, lontano, sempre più lontano…

3.2 Testo

Un rapporto amoroso giunge alla fine.

Si è smarrito quel sentimento che all’inizio appariva tanto vivido, a tal punto da non ricordare più nemmeno come ci si sentisse.

A questo punto, lasciare perdere tutto, inclusa la speranza di poter sistemare le cose, è un ultimo atto d’amore verso l’altro.

Mi piacciono, nelle strofe, specialmente nella prima, le descrizioni astronomiche, poetiche e suggestive, di quel precipitare dalla solida sicurezza dell’amore perduto, di quella distanza siderale degli amanti che non sono più, paragonata a quella delle stelle.

04) Anniversary

4.1 Musica

Ma si torna a terra, subito, con un brevissimo carillon di campane elettroniche, indubbiamente celebrative, con la cassa ossessiva unita ad un suono come di martello (a suggerire il lavoro di continuo cesello e aggiustamento che quarant’anni e più di carriera richiedono, immagino), l’hi-hat ora aperto ed ora chiuso in un riff articolato, ed il basso tanto ossessivo quanto modulato ad ottave.

La parte di synth, che precede la voce e suona decisamente moderna (sempre in senso disco), ricorda un po’, modulato, il “ta-na-na-na” che inizia “The Reflex”, per poi sfociare altrove.

E Simon ci invita ad unirci a loro nei festeggiamenti: come rifiutare?!

Più avanti, il ritornello è trascinante, e comprensivo di tutti gli elementi che caratterizzano una classica canzone up-tempo alla Duranduran: hi-hat scatenato, cassa e rullante con quest’ultimo che rulla alla fine di ogni iterazione, basso un po’ disco ed un po’ funky con uso abbondante di slap ed ottave, la voce di Simon potente e gioiosa, ed un “dodo-do-dododo” che ricorda (senza copiarlo) quello “Hungry Like The Wolf”: se l’inizio discotecaro può forse far storcere il naso, il ritornello lo fa perdonare ampiamente.

Una sezione intermedia, condita da synth di sapore antico (in senso duraniano) e nuovo, ci fa assaggiare un accenno di linea vocale, filtrata e distorta, con la quale poi il brano si chiuderà, in un tipo di elaborazione che è entrato da tempo nel loro lessico (già nella trascinante coda di All She Wants Is, ad esempio).

4.2 Testo

Come detto sopra, questa è, evidentemente, una canzone autoreferenziale, celebrativa del quarantesimo anno di carriera dei DD (contando dall’anno di uscita del primo album).

Mi incuriosiscono, per primi, due versi:

“Some moments burned into the storm / And some you’ll never know”.

Possiamo pensare di conoscere, dalle interviste, tante vicissitudini e difficoltà attraversate dai nostri, ma la verità è che conosciamo solo ciò che hanno scelto di rivelarci (com’è giusto che sia).

Ed ancora solleticano la mia immaginazione queste parole:

“Celebrate with silver, oak and bone /

Celebrate with paper, gold and stone”

Da un lato c’è attenzione per assonanze e metrica. Dall’altro… c’è molto di più!

Il passaggio da argento a oro può rappresentare un parallelo con le denominazioni degli anniversari nuziali: l’anniversario delle nozze d’oro è ancora più importante di quello delle nozze d’argento, perché è trascorso il doppio del tempo.

Nel primo verso si fa riferimento al legno di quercia e all’osso: entrambi materiali organici, fanno riferimento alla vita, alla crescita ed al nutrimento ed alla cura necessari per favorire i primi due.

Nel secondo verso troviamo, invece, carta e pietra: certamente non si tratta di un riferimento al famoso gioco “carta, sasso, forbice”, ma sembra riferirsi, piuttosto, alla loro vicenda, che resterà scritta nelle pagine della grande Storia, e scolpita nella pietra di quel Tempo che è passato, e dunque immutabile.

Suonano umanissime, e fanno sia sorridere, sia riflettere, le parole, come “I don’t know, I don’t know / Oh, are we still holding on? / And I know, can’t stop, can’t stop”.

E’ quello che a volte si domandano e dicono, evidentemente, anche loro, guardando indietro, in tutta la loro umanità.

05) Future Past

5.1 Musica

La title-track doveva essere, idealmente, degna di rappresentare l’intero album: per costruzione, per tematiche, per sonorità…

Non delude assolutamente, a mio parere, e rappresenta, prima di tre ballad (se mi si passa il termine), una delle più belle canzoni dell’album.

Inizia con un synth tra il sottilmente percussivo ed il melodico, effettato, riverberato, in uno stile espressivo, che, mi sembra, non li ho mai sentiti proporre prima, o almeno non in questo modo.

Simon inizia a cantare di memorie lontane, e l’atmosfera si fa malinconica… non so esattamente perché, ma mi fa ripensare, seppure lo stile è differente, ad una specie di traslazione musicale in stile anni ’80 di un brano ipotetico che potrebbe essere stato scritto decenni prima, con la voce da crooner protagonista indiscussa.

La chitarra arpeggia timidamente.

Ma ecco il basso, colorato di chorus (come in svariati brani da “Rio”)… e quando il brano esplode nel ritornello, con la batteria che ne prende la guida, con un sequencer a sottolineare una ritmicità nascosta, ho una vaga reminescenza di “Take my breath away” dei Berlin: non che i due brani si assomiglino, no, assolutamente. Ma c’è un’interazione tra gli strumenti, le cadenze, che mi rimanda, vagamente, a quel tipo di atmosfere. E’ un ritornello solenne e splendido, nella miglior tradizione duraniana… ed arcadiana, anche, forse, sì.

La ripetizione di strofa e ritornello è più animata, grintosa ritmicamente… più trascinata e trascinante.

Un intermezzo con assolo di chitarra mi rimanda un po’, tra il suono dello strumento ed il ritmo sincopato e “in attesa”, al finale dell’assolo di “Cracks in the pavement” da “Seven and the Ragged Tiger”: non sto dicendo che suonino allo stesso modo, ma che vi sono soluzioni in modalità ed arrangiamento in qualche modo simili.

Alla fine il ritornello viene ripetuto ancora, anche quando la batteria si tace, arricchito da archi (Simon e un’orchestra, un meraviglioso abbinamento!)… ed infine Simon si raddoppia o triplica, armonizzandosi in un modo che, per quanto le singole parti siano umanissime, appare curiosamente sintetico, quasi si trattasse di un effetto elettronico: “and we are living now”, canta, d’altra parte, e queste parole sono ben rappresentate da quell’effetto.

5.2 Testo

Una suggestiva riflessione sul tempo che passa, su ogni istante che è un futuro che sarà già passato non appena l’avremo vissuto.

La prima strofa è tanto più struggente e toccante quanto è localizzata nello spazio e nelle circostanze: è un ricordo vero, non solo un artificio letterario.

La seconda è quasi amara: si sceglie di esser grati per ciò che rimane (ma l’evoluzione non sta, forse, proprio nei cambiamenti?), mentre si osserva come la vita non va come vorremmo.

Ma è nei due bridge che l’amarezza si fa più lancinante: non solo le memorie ci raggiungono, ma ci permeano fino a farci pensare di non essere ed avere altro che esse. Ma in entrambe le circostanze si cerca uno sbocco consolatorio nell’idea di essere più vicini e forti, nel condividere un tale destino.

06) Velvet Newton

Un viaggio spaziale, intorno ed attraverso gli anelli di Saturno o attraverso le nubi di Giove.

E’ ciò che mi suggerisce questo sovrapporsi di synth, dinamici, lo-fi, ora rumoreggianti, ora risonanti di feedback, ora esplosivi, ora corali, spesso ritmici, e di un basso fretless corposo e selvaggio, sempre effettato con chorus e forse un po’ di saturazione, su un ostinato di cassa: forse la navicella è una pista da ballo volante con vista sul cosmo? Non mi stupirebbe.

Ecco Simon canticchiare qualcosa (che non riesco ad intelleggere), prima che la trama si infittisca sempre più, in un’apoteosi che sfocia nella partenza improvvisa della navicella.

07) Beautiful Lies

***Uno scivolamento verso il profondo del basso di John dà il via ad una cavalcata up-tempo sostenuta, oltre che dal basso elettrico, da una sequenza ripetuta di synth, nello stesso registro profondo, il cui ritmo ed incedere (solo quello) ricorda il synth trascinante in “Sound of Thunder” dal primo album: la combinazione delle due sonorità è semplicemente stupenda, per come il basso elettrico intercala dosi generose di umanità alla corsa inarrestabile, fredda, dell’altro strumento.

La progressione armonica di questa prima sezione è misteriosa, indagatrice… evidentemente, dato il titolo, alla ricerca della verità!

Sulle strofe le sequenze del primo synth basso passano a registri ben più alti, mentre ne appare un altro, auto-filtrato in modo modernissimo, che suona all’unisono con il basso di John, in modo meno invasivo, più intervallato, per lasciare più spazio al cantato di Simon.

Un bridge dal sapore medio-orientaleggiante (par quasi di vedere, in un torrido deserto, una carovana con cavalcature su cammelli incedere sulle dune sferzate da caldissimi venti) inizia a cantare di bellissime bugie, e diventa poi epico, ascendente, trionfale, nell’accompagnare quel desiderio profondo di credere ad esse… ma dura pochissimo, ed ecco che, dopo un’abile soluzione armonica con una sequenza di accordi che all’inizio spiazza un po’, ma è pur sensatissima per ciò che la canzone trasmette, così si ritorna alla porzione di “ricerca della verità”.

Può sembrare strano che la canzone non si soffermi più a lungo sul concetto di “beautiful lies” con un accordo che trasmetta un senso di arrivo, di compiutezza, e che la progressione armonica del ritornello non sembri arrivare a nulla, ma che invece cerchi, volutamente, un effetto di instabilità: ebbene, non è forse ciò che le menzogne, per quanto luccicanti, consegnano, in realtà?

La ripetizione di un’altra strofa è animata da una percussione, il cui ritmo ricorda certi effetti “clap” (mani battute). “ta-ta, ta”, da anni ’50 o ’60 o giù di lì, ma il cui suono, percussivo e sgretolato, come la realtà la cui solidità si sfalda man mano che le bellissime bugie vengono smantellate, potrebbe benissimo venire da Paper Gods.

“As the drums announce we are trapped inside a snare”? Ecco Roger prodursi ai tom, in uno stile che ricorda certe cose di Seven and the Ragged Tiger o da So Red the Rose.

Ma insomma, il brano continua a giocare su quella sensazione di incertezza, tant’è che l’ultima sezione appare incalzante e bellissima, sì, ma sospesa, irrisolta: ancora, questo da un punto di vista tematico, è assolutamente sensato e coerente.

E quella nota di synth basso che, per ultima, si spegne, non è forse interrogativa?

08) Tonight United

8.1 Musica

C’è, spesso, nel nostro modo di amare, o di detestare, la capacità di filtrare, di pesare, uno o magari più elementi, tratti, caratteri, dell’oggetto della nostra considerazione, a vantaggio o svantaggio di uno o magari più altri e ulteriori elementi, in modo tale che ciò che si pone davanti ai nostri sensi, o al nostro pensiero, ci risulterà amabile e desiderabile nonostante dieci, cento o anche mille difetti ai quali scegliamo però di non dar peso (o non troppo, almeno), oppure ci sarà intollerabile, nonostante quei pregi che pur percepiamo, ma che non ci paiono sufficienti per farci mutare il nostro drastico giudizio.

Per me avviene lo stesso con questo brano, il cui inizio è così smaccatamente studiato per attirare la gente in pista, in una discoteca dei giorni nostri, da risultarmi poco digeribile.

Sì, cari DD, lo so, volete – da sempre – anche far ballare la gente… ma dovete proprio richiamarli alla pista così?!

Quella sirena è un po’ sguaiata, ordinaria, a mio modesto parere… un po’ indegna, per una tradizione pur capace di tantissima profondità e solennità.

Non dico che non sia gradevole ed accattivante, in un contesto discotecaro: sostengo solo che sia piuttosto banale, però… un po’ (tanto, in realtà) già sentito.

E il filtro a banda passante variabile sul riff di basso ad ottave ? Già strasentito, da decenni, ormai, sulle piste.

Ecco, questa è la mia personale “first impression” (cit.) sull’inizio di questo brano: è poi riuscito, il resto, a farmela dimenticare ed a portarmi ad innamorarmene comunque?

Un tappeto di tastiere, cassa e hi-hat aperto/chiuso (lo ritroviamo spesso, in effetti, ma non stanca assolutamente), un basso umanizzato dalle dita danzanti del nostro JT e la voce affettata di SLB riescono a restituirmi una maggior personalità che mi fa ben sperare, se non altro.

Ma è sul bridge, su quel sequencer ancora una volta alla “Sound of Thunder” (con i tre primi accordi su quattro della sequenza che lo ricalcano fedelmente) che riesco a trovare bellezza in questo brano ed a dimenticarmi di quella sirena un po’ cliché.

E sul ritornello, quel “naaaaaa na-na-na na-na-na na-na-na” mi distrae ulteriormente e mi cattura, nonostante la sirena, che pur ora è addolcita, quasi flautata, e mi ricorda vaghissimamente, come suono, pur se differente, quella di Save a Prayer, ritorni a suonare.

Ma anche i cori femminili, che armonizzano il cantato principale, arricchiscono il tutto con gran gusto.

Brevi intermezzi di basso slappato, solitari per poter goder a pieno della loro percussività intrinseca, sono un altro elemento da elencare tra quelli positivi.

Un intermezzo sospeso, offre una goduriosa armonizzazione di voci che mi fa sorridere, ogni volta.

E pazienza, se un altro suono tastieroso da rave aggiunge ulteriore clamore nelle successive ripetizioni del ritornello.

Bisogna segnalare una “acutizzazione” del rullante della batteria… quasi come se ora venisse anche sovrapposto, o sostituito, il suono vero, non triggerato come nella parte precedente del brano (mi sembra): l’effetto energizzante è notevole.

Dunque, alla fine, lo amo, questo brano?

Diciamo di sì, abbastanza, se non altro per quei pregi che riescono a farmi (un po’) dimenticare dei suoi difetti…

8.2 Testo

Per lo più il testo è una ripetizione del semplice ritornello.

Eppure nelle strofe c’è una ragione in più per amare questo brano.

Chi, se non chi è giovane, può “costruire ponti e demolire muri”, dopo aver osservato “l’obsolescenza del vecchio ordine”, lungo una “strada-canzone per attraversare le barriere”?

Ed ecco il prezioso consiglio di chi ha fatto ciò, in musica, unendo punk, funk, pop, elettronica e reinventandosi continuamente.

“Se vuoi far la differenza,
Se vuoi vedere il futuro,
Devi vederlo da lontano [ossia, devi saperlo immaginare, NdDB]
Devi farlo camminando a piedi nudi sulla terra [ossia, devi metterci l’anima, percependo l’energia dell’universo, lasciandoti andare, NdDB]”

09) Wing

Inizia con un fraseggio di chitarra pulita (ma ben “solennizzata” dal riverbero), che termina in un accordo maggiore: questo non deve ingannarci, però, dato che il tono è suggestivo, sì, ma malinconico.

Ed ecco che, infatti, lo stesso accordo, trasmutato in minore, diventa l’inizio della progressione armonica della prima sequenza di verse e bridge, con il basso che punteggia l’inizio di ogni accordo e poco più, ed alcune sparute percussioni, a sottile innervatura di un tappeto corroborato da pennellate di synth.

Alla seconda iterazione subentra la batteria, con un mid-tempo grintoso nella miglior tradizione dei nostri: la sua interazione con il basso, nella sezione ritmica, è quella classica che benedice le nostre orecchie da decenni.

Un momento di arresto della ritmica fornisce, in modo tanto semplice quanto efficaco, un momento di sospensione: come proseguirà, il brano?

Per la seconda volta, l’accordo di chiusura della sezione precedente, mutato da maggiore a minore, serve per cominciare la sezione attuale: il ritornello (o chorus)!

Efficacissimo, struggente, cantabile (e cantato magnificamente, con drammaticità e potenza, in un modo che mi ricorda cose da So Red The Rose), si risolve nella versione in maggiore dell’accordo con il quale era iniziato: lo fa, sensatamente, giustamente, laddove il testo ci dice della tenacia della voce narrante (cantante) che non si arrende, che spera di diventare un uomo migliore.

Ma quell’accordo, dopo una breve sospensione, torna minore, all’angosciosa realtà delle cose.

Del ritornello mi colpiscono… delle ali, per così dire, di accordi di synth, molto corposi, ancora una volta ottenuti con arpeggiatore (credo), forse effettati con phaser e flanger, che rappresentano, nella mia interpretazione, un volo di elevazione, dalla disperazione verso la speranza: il risultato sonoro, ed emotivo, è straordinario.

In un intermezzo sostenuto, che riprende l’arpeggio di chitarra iniziale, c’è un breve assolo di chitarra aleggiante, nervoso, che ricorda i modi espressivi di Cuccurullo.

Poi di nuovo verse, pausa e chorus, giustamente arricchiti da ulteriori sonorità (inclusa quella di una sezione di archi orchestrali).

L’assolo sul nuovo ‘intermezzo, che si ripete, è ora affidato alle tastiere, con accordi trascinati, tanto potenti quanto languidi, come a rammentare tempi migliori, mentre sull’ulteriore iterazione della progressione armonica del verse la voce sparisce, sostituita da un assolo di chitarra ancor più lancinante, pieno di armonici da feedback, mentre sul bridge è ancora la tastiera, con un suono simile ad un flauto unito ad un suono di archi, ad eseguire un assolo, semplice ma non banale, carico di sentimento.

Ripetizioni ulteriori del ritornello concludono il brano, per l’ultima volta in una sospensione del ritmo e nell’atterraggio finale su quell’accordo maggiore che ci indica che no, non si vuol perder la speranza nel recuperare quel rapporto che parrebbe ormai perduto…

(Personalmente, considero questa una ballad, anche se non è certamente lenta o “appoggiata” nell’incedere.)

10) Nothing Less

10.1 Musica

Con la voce di Simon in un tale stato di grazia, abbondano, giustamente, le occasioni per ascoltarlo o in solitudine o con un accompagnamento minimale, prima che venga piacevolmente travolto dall’ensemble di strati di strumenti e suoni.

Lo accompagnano un synth crepuscolare ed un battito di grancassa che ricorda un cuore: a seguito di ogni colpo c’è una sorta di ribattuto (delay rapidissimo), realizzato con un brevissimo effetto “strappato”, che nel seguito della canzone verrà sostituito da altri pezzi del drumkit.

Infatti, alla prima occorrenza del ritornello scopriamo che quel battito è inserito in un ritmo sincopato,, “appoggiato”, per così dire… credo sia un ritmo ben definito, la cui identità precisa, però, al momento in cui scrivo, non mi sovviene con certezza: forse, dei Japan?

Amo gli accordi “con portatamento” alla chitarra, dal sapore orientaleggiante, mentre non mi fa proprio impazzire quel cantato femminile, forse troppo ripetuto (ricorda, come intenzione generale, il contro-canto femminile in “Come undone”).

L’atmosfera sonora nel secondo verse mi rammenta un po’ quella di “A matter of feeling”.

Dopo il secondo ritornello ci ritroviamo di fronte ad un assolo di chitarra, tanto possente quanto essenziale: da un lato infonde un teatrale senso di dramma nell’ascoltatore, dall’altro… forse, è un tantino troppo “ruggito”, specialmente nelle note basse, per il tono generale della canzone.

Tant’è che dei fraseggi di chitarra, quasi gilmouriani, che interagiscono lungo ulteriori ripetizioni di verse, bridge e chorus, fino alla fine della canzone, sembrano più misurati ed adeguati al brano.

Ad ogni modo, è una ballad (la terza dell’album, secondo il mio personalissimo metodo per definirle ed enumerarle) che entra subito in testa.

10.2 Testo

Quanti modi suggestivi, poetici, ora tratti dalle esperienze più semplici e banali di tutti i giorni, ora scavati da contesti più onirici, per significare il nulla che una relazione può dare.

I versi “storia romantica sul telefono” e “annegato nel monocromo” sembrano suggerire si tratti di una storia vissuta principalmente (o totalmente) sul telefono, in un’assenza di presenza, di coinvolgimento reale… se il telefono non è, poi, addirittura, un mezzo per distrarsi da quell’amore e per guardare al di fuori di sé, in quel piccolo monolite luminoso, per non guardar dentro di sé, a quei sentimenti che non ci sono.

Ma, “il nulla di guadagnato non è affatto perduto”, e questa piccola garanzia sembra essere sufficiente per la voce narrante per non fare nulla, per non dire nulla, e lasciare che le cose restino come sono, con un domani che non offre “nulla di meno e nulla di più”.

11) Laughing Boy

11.1 Musica

Le tastiere iniziali, che mi rimandano a meraviglie da “Big Thing”, introducono un sottofondo dinamico per il canto di Simon.

Quando subentra la sezione ritmica, data dalla batteria più sintetica che mai e dal basso slappato, ci ritroviamo a contemplare una meravigliosa, sospesa mescolanza tra new wave e suoni moderni.

Ma dopo questo primo frangente molto trattenuto, ecco una sezione più dinamica e grintosa, ed assai meno artificiale, che ci porta al ritornello, cantato gioiosamente, condito di cori armonizzati dello stesso Simon, e punteggiato da un meraviglioso synth acuto, evanescente, reminiscente dei magnifici 80.

Un assolo di chitarra tanto semplice quanto efficace è poi screziato di velocissime sequenze di arpeggiatore, che resteranno anche nel ritornello successivo.

Ma si riprende con verse e chorus, semplicemente trascinanti (e Roger aggiunge quantità generose di tom, tonanti, a correre attraverso il nostro panorama sonoro).

Presente solo sull’edizione deluxe, è un brano straordinario, da parte di una band che non suona affatto come se avesse quarant’anni di carriera alle spalle (cosa che, di fatto, è), ma piuttosto come se, all’inizio del proprio cammino, ambisse a mostrare al mondo il suo desiderio di espressione e la sua ambizione.

11.2 Testo

Ancora si parte da dei ricordi, da una riflessione sul tempo che è trascorso.

“Il tempo non aspetta,
nemmeno te, amico mio
Non posso fare tardi
Sto vedendo la fine”

Eppure seguono alcuni riferimenti al gioco: un asso dal valore elevato, e il fatto che dopo anni si aspetta ancora l’esito di una lotteria che non si realizzerà mai.

Ora non corre via, dato che ha corso per tutto il giorno (cioè, per tutta la vita?), ma ora sta crollando tutto, ora sta arrivando… ancora, la fine?

Dice, “sono stato il tuo bambino che ride, l’ho sopportato, l’ho accettato con grazia, e tutto il calore che sprigioni / il tuo bambino che ride, e più incasso, il tuo bambino che ride, e più vado a pezzi”

Nella strofa successiva ancora ricordi, un falò sulla spiaggia, e la persona alla quale si rivolge il canto è al proprio fianco: ma ora “la gang di palazzo si occupa di nuovo di vecchie cose, questo è il richiamo per me, sto uscendo con stile”…

Sembra quasi una contrapposizione, tra un vecchio rapporto nel quale non ci si può soffermare, pena l’esserne feriti, e ciò che si vuol essere o fare: un rapporto con qualcuno che non ha mai preso seriamente chi canta quei versi, e ciò che fa con quella “gang di palazzo”.

Potrebbe forse trattarsi di un brano autobiografico, su qualcuno che Simon conosce, e riguardare la difficoltà di quella persona a considerare seriamente la scelta artistica alla quale il nostro cantante ha dedicato una vita?

12) Hammerhead (feat Ivorian Doll)

E’ solo un esempio tra infiniti altri, ma vorrei decantare il suono dei quattro accordi che iniziano questo brano: biscottato, friabile (!!)… goloso, con quel pizzico di phaser (almeno, io ce lo sento), che mastro Rhodes ha aggiunto alla ricetta.

Questa è la cura, l’attenzione, la maniacalità del dettaglio con cui il nostro crea i suoni che poi possono rendere i brani speciali, unici, differenti da qualunque altra cosa si senta in giro (in un’intervista lui stesso lo conferma: non usa preset già esistenti, o almeno non semplicemente “presi dalla scatola”, senza personalizzarli).

Questo biscotto ha, in questo primo frangente, la funzione, oltre che di introdurre la canzone, di accompagnare Simon in una prima esposizione del verse, insieme ad un synth furtivo, sinuoso, di ottantiana memoria, subito seguita da un’esecuzione del ritornello: in questo si aggiunge il basso, massicciamente e stupendamente effettato, una gustosissima voce che annuncia “I’m coming for you” e, meraviglia!, addirittura un coro dall’entusiasmante intenzione gospel!

Ancora una volta l’avvento della batteria, tanto essenziale quanto efficace, unita al basso, fornisce al brano un drive sornione ed accattivante (che mi ricorda un po’ “Skin Trade”).

Mi piace evidenziare, sullo sfondo, a screziare il tappeto sonoro, la ripetizione di un pigolio o cigolio effettato di flanger (forse eseguito alla chitarra), seguito dal suono ripetuto di laser da videgioco… un elemento che si collega, sia sonoramente che tematicamente, ad un brano successivo (il seguente, nell’edizione non deluxe).

Tutto eccelle, ed il breve rap (quattro giri) eseguito dall’ospite di turno, la britannica Ivorian Doll (dall’accento adorabile!), aggiunge certamente un gradito elemento di novità: perché proprio un rap? La figura femminile in arrivo è forte, inarrestabile, dunque un “cantato amelodico”, per giunta in uno stile tradizionalmente associato al mondo maschile, è un ottimo veicolo di questo senso di potenza.

Dal testo, nel verse che segue, mi piace riportare questo verso:

“In the name of all the women I’ve known
The woman inside of me is out to take me down.”

Lo trovo molto jungiano, in quanto si abbina all’idea che nell’uomo vi sia l’Anima, al femminile, con la quale il maschio debba incontrarsi ed alla quale debba aderire, in qualche modo, per trovare in se stesso equilibrio, armonia e pienezza!

In altre parole, la donna dentro di lui si manifesta per abbattere quel suo lato troppo macho.

Sul finale, ancora un sussurro, sempre più presente di Ivorian Doll, mentre la musica, al contrario, si spegne: “Sto arrivando… sto arrivando… sto arrivando per te”.

“Per”, sottolineo: infatti, incontrare il suo lato femminile nascosto, abbandonando l’eccesso del suo lato macho, incontrando i propri sentimenti, potrà solo fargli bene e renderlo più

Un’ottima e suggestiva conclusione, a mio parere.

13) Invocation

Quello stesso riff finale di Hammerhead, dato da chitarre, basso e synth, ora riaffiora dal silenzio e viene modulato su una struggente progressione armonica discendente, mentre la batteria, prima limitata alla sola cassa, lo trascina in un cammino, una marcia, sostenuta da tutti i pezzi, che potrebbe durare anche ore senza stancarci (…e, onestamente, dovrebbe, durare ore).

Simon sembra improvvisare un canto di poche parole, sempre attinente alla donna misteriosa che, dall’anima del cantore, prende possesso di lui per trasmutarlo in un essere dal cuore completo… e poi il canto diventa vocalizzo potente, che si spinge su note acute, a rivaleggiare con le liriche grida di chitarra… e poi il ritmo si perde, si frantuma (eppure, il sottostante e persistente arpeggio di synth rivela che c’è ancora un senso, una struttura, in profondità, per supportare anche quel momento di abbandono del sé che sta sulla superficie), a dare l’impressione che il brano sia un’invenzione estemporanea sorta da sé, come un miracolo sonoro, durante le prove, e che sia stata provvidenzialmente conservata per consegnarla al nostro stupore in tutta la sua tanto imperfetta quanto perfetta bellezza.

Una vera e propria perla, forse il brano, da questo album, che mi ha toccato di più nello scoprirlo.

14) More Joy! (feat CHAI)

Un’intro pimpante, consistente principalmente nella batteria sostenuta “alla Taylor” (leggi, scatenato sull’hi-hat) ed in un arpeggio la cui sonorità fa pensare all’avanzare del personaggio, tutto pixellato, di un videogioco vintage (ma c’è pure una spartana parte di basso sintetico), ci presenta senza indugi la situazione che permea il brano: deve trattarsi di una festa, perché le CHAI, ospiti di turno, chiacchierano amabilmente tra loro.

E non tacciono (non completamente, almeno) neppure quando Simon propone per la prima volta la strofa (l’argomento della conversazione dev’essere proprio interessante!).

Ma la magia avviene sulla ripetizione, di quella strofa: perché il basso con chorus (ma sullo sfondo, a punteggiare, ce n’è pure uno in modalità slap) propone una linea ad ottave molto intensa e… molto familiare!

Sì, perché se ci si concentra sul suo solo ritmo e si cambiano le note fondamentali degli accordi, ma mantenendo la cadenza e l’uso delle ottave… ecco che si ritrova l’intenso, magistrale riff di basso sintetico alla base di “All She Wants Is”!

Ricorderete le parole del ritornello: “all she wants is… all she wants is… all she wants is… more!”.

Eh, già: e per trentadue anni, ci siamo chiesti, “more” che cosa? Cosa vuole, lei, di più, ancora e ancora?

Ecco, dopo trentadue anni lo scopriamo, finalmente: “All She Wants Is… More Joy!”.
Come si potrebbe non essere d’accordo?

Nel ritornello le CHAI si uniscono a confermarlo, con il grido “more joy!” come in un botta e risposta con Simon.

Ma la festa ha in serbo un’altra sorpresa, per noi: alla base strumentale ed al gioioso discorrere delle voci femminili, infatti, si sovrappone un assolo di effetti atonali che mi evocano l’idea di un motore positronico (?!), in accelerazione, di un mecha (leggi: robottone gigante), pronto ad emergere dal mare al largo di Tokyo ed a volare rombante sulla città…

No, non per distruggerla, né per difenderla, ma semplicemente per unirsi alla festa e magari azzardare qualche tonante passo di danza (le CHAI si spostino, per carità! (E pure i DD, per carità, ci mancherebbe!))!

Parrebbe una festa davvero riuscita: mentre la musica si spegne, ascoltiamo il robot andarsene, mentre le nostre simpatiche parlatrici continuano, imperterrite, a raccontarsi… già, cosa?

Una lunga serie tv, forse?

15) Falling (feat Mike Garson)

15.1 Musica

Un pianoforte dalle intenzioni classiche: un tema magnifico e solenne (diventerà il ritornello), che alle mie orecchie amanti (anche) dei suoni sinfonici pare gridare “aggiungete un’orchestra!!!”.

Ora, no, l’orchestra non arriva: ma si uniscono subito alcune flebili campane, qua e là…

Il pianoforte ed un piano elettrico (dalle sonorità alla “Edge of America”) inizia, guardingo, a suonare l’ossatura della strofa: intanto, un synth “alla primo album”, etereo ed effettato, aleggia intorno alle nostre orecchie, mentre una chitarra con ribattuto veloce ed una spruzzata di riverbero, alla “Palomino”, e dunque da “Big Thing”, accenna poche, preziose note.

E il canto di Simon inizia, con il pianoforte che, nelle pause, interagisce con lui.

Poi ritorna l’elegiaco ritornello ed ecco che scopriamo come il canto costruisce su di esso pinnacoli che paiono arrivare al cielo: parrebbe paradossale, dato il titolo “falling”, ma il testo ci rivelerà presto il suo senso.

Riparte la strofa, alla quale ora si aggiungono basso e batteria, dall’incedere trascinante pur se sommesso: e la memoria torna, potente, al jazz sintetico di “Too Late Marlene”, sempre da “Big Thing”.

Ora il piano, ancora evocativamente classico, inizia a lasciarsi andare a qualche fraseggio jazz… “blue”, come quel certo malinconico sentire… e infatti il testo ci ha già svelato che si tratta di “cadere nel sentimento”.

Le sonorità, però, non rimandano solo al passato: il suono che sostituisce il rullante è quel rumore percussivo, simile ad un pezzo di plastica fissato ad un supporto che, percosso, vibra, che in “Paper Gods” si trovava in “In my dreams”.

Mi piace sottolineare come la voce di Simon è, all’inizio, abbastanza asciutta, tutto sommato, non eccessivamente rivestita di riverbero: come a dare un senso di vicinanza, di intimità.

Ma questo cambia presto, dopo una breve sezione interlocutrice con un “do do do”: ecco la sua voce riverberata, mentre tutti gli strumenti sotto di lui si scatenano ad aggiungere svolazzi generosi ed emotivi.

Ancora il ritornello, che sfocia in un frangente sospeso, che preannuncia la ripresa del sommesso interloquire del quale il “do do do do” era ed è il “la” che ispira e lancia il tutto.

Il pianoforte si lancia, ardito, in fraseggi ora jazz, ora classici, ed è meraviglioso scoprire come un brano synth pop riesca ad unire, amalgamandole, entrambe le influenze.

Simon si scatena non di meno, con vocalizzi ondivaghi, come in un dialogo melodico con se stesso.

Sul finale rimangono il piano ed il synth aleggiante, mentre quelli che sembrano sospiri elettronici ci lasciano senza fiato, a sospirare per il termine di un ennesimo capolavoro dei nostri amati Duranduran.

15.2 Testo

“Su una spiaggia bianca sotto il sole”: non può non tornare alla mente il video di Save a Prayer, con quel tipo di scenario.

Viene descritto meravigliosamente, il momento nel quale ci si domanda se non si sia sul punto di innamorarsi, “con una silenziosa esplosione dentro, come una goccia di pioggia che cade sulla pelle”: perché anche i sensi vengono citati, come alfieri che precedono il regale sentimento.

Ma c’è un dubbio, quasi un timore ad ammettere che quello che si prova è amore, ed ecco allora che o lo si nega o si domanda se sussista, o ancora si chiede il permesso di considerarlo e chiamarlo in quel modo.

Ora, rammentando il testo di “Save a prayer”, un’elegia alle avventure di una notte senza grandi parole e senza un ulteriore, più profondo impegno, con “Falling” pare di vedere un cedimento, una resa: per quanto ce ne si vergogni, per quanto lo si tema, per come comporta il mettersi il gioco ed il mostrarsi nella propria fragilità, forse ci si può finalmente concedere di ammettere, anche solo in una domanda, che ci si può lasciar andare all’innamoramento, ai sentimenti, precipitandovi con il corpo e, soprattutto, con la mente, che lo ammette, e con l’anima, che accetta di buon grado di proiettare il proprio sguardo ad un futuro, ignoto, oltre le proprie certezze, un futuro i cui decreti non possono che essere ignoti: è la fede, forse, in senso ampio, ad essere segretamente interpellata in questi versi, come una silenziosa preghiera che, al momento di lasciarsi cadere, potrebbe sussurrare “se mi ami, allora, adesso che per te mi lascio cadere nell’ignoto, prendimi, afferrami… salvami”.

Osservazioni

– L’ASMR (“Autonomous sensory meridian response”) è uno stato di rilassamento e benessere psico-fisico. Il termine è poi stato impiegato per indicare il trend, assai popolare, delle registrazioni audio costituite da sussurri e suoni registrati con microfono stereo che restituiscano, con grande fedeltà, prossimità e spazialità.

Qua e là nell’album non mancano sussurri in stile ASMR: un riferimento al fenomeno, senza dubbio, magari anche un nemmeno tanto celato intento di trasmettere un ulteriore senso di benessere all’ascoltatore: già solo la bellezza della musica otterrebbe (ed ottiene) ciò, naturalmente, ma potrebbe anche essere che i bisbigli trasmettano l’intenzione di arrivare, quasi subliminalmente, all’anima di chi ascolta. Un’altra possibilità, non necessariamente mutuamente esclusiva rispetto alle altre, è che si desideri approcciare, almeno con la voce, l’ascoltatore con discrezione: in un’era in cui una pandemia può essere contrastata mantenendo il distanziamento sociale, ciò è molto suggestivo…

– Dalle liriche di Simon Le Bon sono, fin da subito, affiorate le più varie attitudini e sfumature: ora disimpegnata e festaiola, ora profonda e malinconica, spesso e volentieri misteriosa e criptica.

E’ certamente d’effetto, e commovente, ora, trovare nelle parole del Simon maturo non poche riflessioni sul tempo passato: ce lo si immagina, quasi, a fermarsi ed a guardarsi indietro… per carità, è assolutamente naturale, ma ricordando come il nostro amato frontman ha superato i 60, si prova una piccola stretta al cuore…

– La chitarra è presente in tutti i brani, spesso nascosta sotto gli strati di sintetizzatori e basso, a volte emergente con carattere, ma mai centrale per i brani, prevalentemente secondo l’equilibrio duraniano dei primi album.

Eppure, in un’intervista per Rolling Stone (Ottobre 2021), i DD affermano come il ruolo del chitarrista Graham Coxon sia stato addirittura decisivo, in fase di composizione: prova di questo è anche il numero di brani in cui Coxon è accreditato come co-autore.

Conclusioni

AYNIN era il passato: mi è impossibile, sentimentalmente, ma pure razionalmente, aggiungere un “troppo”, per quanto è splendido! Il merito è certamente da ascriversi al produttore, Mark Ronson, che li convince a rivisitare quelle sonorità dai quali si sono tenuti a distanza per decenni per non ripetersi: destino non dissimile da quello dei MetallicA, che dopo il capolavoro di …And Justice for All passarono decenni a snaturare e reinventare il proprio suono.

Poi PG si è proiettato nel futuro, in diversi frangenti forse anche troppo (questo “troppo”, invece, non sono restio a pronunciarlo: è solo il mio personalissimo parere, naturalmente).

FP, invece, ne è la perfetta sintesi: i DD lanciano rami verso il cielo del futuro partendo da solide radici ben piantate nel terreno della loro storia, ed ecco che i due aspetti si trovano a coesistere in sinergica, equilibrata armonia, dipingendo uno splendido presente.
Bisogna anche sottolineare come FP abbia anche il pregio di trarre la propria linfa dalle sonorità e dai modi di un numero più vasto di album dei nostri, quando invece AYNIN si concentrava prevalentemente sui primi tre.

Si deve ringraziare il produttore di turno (par la maggior parte dei pezzi), Erol Alkan, per averli provvidenzialmente convinti a non vergognarsi delle proprie sonorità più genuine e naturali, ma ad abbracciarle ancora, pur con la sensibilità presente, così da suonare più Duranduran che mai.

(DB, 2021-11-16)

Add Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Daniele Bergamini © 2018 All Rights Reserved.
Privacy Policy - Cookie Policy - Disclaimer